Anteprima del libro “Cosmogrammi”
di Marko Pogačnik

Molti anni fa, nel 1967, venni a sapere assieme a mia moglie, che non lontano da noi nella cittadina di Kranj in Slovenia, viveva in silenzio un membro della famiglia imperiale giapponese. Come poteva essere – una donna che secondo la tradizione giapponese non avrebbe mai potuto lasciare il suo paese, viveva nella nostra piccola città slovena?

La giovane donna si era innamorata, nel breve tempo dell’operazione di scarico di una nave, in un marinaio sloveno di Kranj. Io lo conoscevo come poeta e viaggiatore. Lui la nascose sotto il ponte di coperta e la portò in segreto in Slovenia. Lì la coppia si spose. Gli unici oggetti che riuscì a portare con se furono alcune tazze della tradizionale cerimonia del tè. Alla corte imperiale aveva assolta una formazione di due anni nell’arte della cerimonia del tè.

Dopo aver sentito di questa storia romantica, invitammo la principessa a casa nostra e la chiedemmo se potesse eseguire la celebrazione del tè per noi. Lei arrivò in normali abiti europei, ma nell’attimo in cui toccò la maniglia della porta, la mia comprensione di cultura cambio istantaneamente. Il suo gesto così semplice mi era sembrato un pezzo di poesia.

Nel contesto della nostra società moderna impariamo a vedere la vita come qualcosa di secondario e profano, soprattutto nei paesi socialisti. Se ci fosse qualcosa di sacro poi, avrebbe dovuto trovare il suo spazio al di fuori dalla vita quotidiana.

La principessa giapponese però aveva toccato la nostra banalissima maniglia con la stessa attenzione per il sacrale, con la quale più tardi prendeva in mano le sacre tazze della cerimonia del tè. Compresi allora che esisteva un’altra lingua con cui ci si poteva rivolgere alla vita, oltre al comportamento di routine delle nostre giornate profane. Molto evidentemente esistevano culture, che non parlavano la lingua della separazione, neanche nelle situazioni quotidiane più semplici.

Il tè che ci fu preparato per la cerimonia ci pareva una strana sorte di spinaci. Ma non era importante. Ciò che cambio la nostra vita in quel giorno fu il presagio, che gli uomini potessero trovare un linguaggio in grado di esprimere la nostra vita quotidiana come una sequenza continua di azioni sacre. Che si potesse celebrare la vita, senza alcun’esagerazione teatrale. Vivere in quel modo, come se la vita fosse in ogni istante una cerimonia sacra, senza dover svolgere un particolare rituale, divenne una delle nostre mete.

Più tardi trovai un’espressione per questa visione: “Arte della vita”. Possiamo vivere la vita quotidiana con la stessa intensità con la quale un artista crea un’opera? Oggi preferisco parlare di quella visione come lingua sacra vitale oppure come la lingua della sacralità della vita. Guardandola sotto la luce giusta, si tratta di molto di più che di una lingua, ma di una cultura che rende possibile a ogni persona di vivere la sua vita nella totalità, e di non uscire da questa totalità in nessun momento, il più insignificante che esso sia.